#Mettere a Dimora

Un’immagine è più di un’immagine e a volte più della cosa stessa di cui è l’immagine
– Paul VALÈRY

“Se c’è una ragione per la quale esiste il design, la ragione – l’unica ragione possibile – è che il design riesca a restituire o a dare agli strumenti e alle cose quella carica di sacralità per la quale gli uomini possano uscire dall’automatismo mortale e rientrare nel rito.”
–  Ettore Sottsass

Materia Viva. Courtesy, foto Archivio Minisci Design

Ognuno di noi, quando fa il suo lavoro intensamente, si pone obiettivi che poi si rivelano aldilà delle proprie capacità, dei propri mezzi. È umano vivere le contraddizioni dei propri lessici, delle difficoltà legate alla mancanza di un contesto, di un dialogo. 

Design non è solo un’idea o un intuito, ma è uno studio continuo, alla ricerca di uno stile e di forme che trasformano l’idea di un prodotto in un bel prodotto. Anche con il linguaggio si fa design. Persino quando pensiamo al linguaggio e ai testi progettiamo, anzi, citando il linguista Tullio De Mauro: Parlare significa sempre e comunque progettare, o intendere segni […] (Prima lezione sul linguaggio). 

Un lavoro attento, meticoloso, quasi maniacale, metrica di precisione e allo stesso tempo di leggerezza del vivere.  Ogni opera è connessa alle altre, quasi come una loro introduzione, ma contemporaneamente rimanda a visioni alternative, puramente mentali. “Ogni immagine è, evoca o coincide allo stesso tempo con la parola che la presenta, la commenta, la illustra”. La spontaneità delle sensazioni come sorgente, il disegno come struttura reticolare per catturarle. Ed è proprio il pensiero, il concetto, che diviene centrale per la mia poetica, a discapito del prodotto che è strumento. Fare il fondo, osservare dove la linea d’orizzonte si lascia vedere tra i riflessi della luce, fa di un lavoro artistico quel senso d’attesa. Il “paesaggio” è di fondo, sta lì come se si comprimesse tra il desiderio e il favore. È un gesto, un segno lasciato evanescente nel tentativo di raccogliere un punto di vista. Quest’attesa definisce un luogo, un posto dove fermare lo sguardo e tracciare quel ponte che fa avvicinare le due possibilità, Paesaggi di fondo, ovvero la comprensione dell’attesa. Essere presenti contemporanei, significa essere in grado di percepire il buio del presente. Ciò vuol dire che riuscire a vedere il proprio tempo non è qualcosa di scontato, ma è il frutto di un’operazione di pensiero. Catturare sensazioni è un’attività particolare, che richiede uno strumento arcaico, la ‘pittura di una volta’, lavorare partendo da lontano, quindi, forse dal profondo del tempo. “Il senso dei luoghi”, come propone Vito Teti in uno suo scritto per Donzelli. 

Tornare per celebrare un rito riappropriarsi del luogo, rifondarlo. E almeno per un attimo e nella fugacità di un tempo breve, quel luogo rinasce negli occhi di chi era andato via o di chi è alla ricerca di un senso, di un altrove che si era forse lasciato alle spalle. I luoghi sono una sedimentazione di storie, memorie, vissuti che ci fanno pensare e ripensare alla vita. Questa dimensione dell’esistenza mi pare si stia perdendo. Certamente la memoria o il ricordare troppo non devono cadere nei facili sentimentalismi, cercando di trasformarlo nel presente per ritrovare la strada, questo sì che può diventare fonte di energia. 

Forse è anche giunto il momento di interrogarsi sul perché abbiamo superato il limite e se non sia il caso di fermarsi un po’ per guardarsi indietro e recuperare un passato dalle potenzialità ancora non espresse. Non penso che si possano avere molteplici identità o posti di riferimento. Penso che il luogo di appartenenza sia assolutamente quello in cui sei nato e cresciuto, quello in cui hai mangiato per la prima volta o ti sei innamorato per la prima volta. Si può fuggire dal luogo d’origine, ma alla fine del percorso comprendi quanto la strada compiuta ti abbia riportato al punto di partenza. 

Questo conferma l’idea che avere delle radici, custodirle nella memoria o anche solo sapere di avere la possibilità di ritrovarle fa parte del naturale viaggio umano, compresa una certa melanconia. Quella melanconia che si accompagna alla nostalgia. Per dirla con Pasolini: una nostalgia sovversiva. “I luoghi non muoiono. Nemmeno quando le persone se ne sono andate. I luoghi continuano a vivere fino a quando ci sono persone ad essi legate, da essi provenienti, fino a quando qualcuno, magari discendente dalle persone nate nei luoghi, ne avrà ricordo. Restare, allora, non è uno slogan né un proclama. Si può affermare un’utopia delle piccole cose che richiede pazienza e cura, circospezione e tenacia, attenzione e apertura, senso di responsabilità e discorsi di verità che non ammettono illusioni”. 

La restanza non deve sottendere una restaurazione di mondi perduti, dunque, ma affermare il diritto alla memoria e all’elaborazione di nuovi modelli di sviluppo. Che ridisegnino i modi di organizzare spazi, economie, relazioni, abitare. Il vuoto creatosi è opportunità di elaborare il nuovo, ripartenza dal margine. Ma necessita di sguardi altri, “perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine”, scrive Vito Teti in apertura del suo ultimo libro. 

Memorie dal luogo, 2012.La forma dell’identità. Terracotta e smalto.  Courtesy, foto Archivio Minisci Design

Il dibattito riparte da queste assenze perché non vi può essere futuro senza la certezza, memori di quello che si è stati, di quello che si è.  Come scriveva il grande epistemologo inglese, Thomas Kuhn, “conoscere” significa, “riconoscere” cose, immagini e pensieri che già parzialmente possediamo, senza esserne totalmente consapevoli: “cose che non possono essere dette facilmente in un determinato linguaggio, sono cose che coloro i quali lo utilizzano, non si aspettano di dover dire”. Ovviamente non è una riflessione che ripropone l’annosa questione del rapporto tra le idee e le cose, tra l’idealismo e l’empirismo. Non siamo così ingenui, il tema è molto più complesso, quando si parla di memoria e di progetto. È proprio vero che, quando progettiamo il “nuovo”, evitiamo di parlare, di citare o utilizzare il “vecchio”, ovvero ciò che la memoria ci consente di riconoscere come parte della nostra precedente esperienza? Noi crediamo che gli oggetti disegnati e progettati, soprattutto quelli che sono facilmente riconoscibili, al di là del successo, da parte degli interpreti, abbiano sempre qualcosa che provoca una sorta di “riconoscibilità”; ovvero il nuovo transita all’interno di forme, linguaggi e rappresentazioni che già fanno parte del nostro sistema di orientamento, sia sul piano estetico sia su quello semantico. È un tema di discussione, è un argomento aperto, ma parafrasando la citazione di Kuhn, se il progetto è un sistema di linguaggi, è chiaro che esso sarà in grado di parlare del “nuovo”, solo nel caso che, pur parzialmente, il passato rappresenti la base sulla quale costruire il futuro. 

In sostanza è come se dicessimo che la verità delle cose è fondata sulla verità dei contesti, intesi come il tempo e lo spazio delle storie individuali e collettive. La durabilità come la conservazione delle caratteristiche fisiche e meccaniche dei materiali e delle strutture, è la proprietà essenziale affinché i livelli di sicurezza vengano mantenuti durante tutta la vita dell’opera. La durabilità è la capacità di durare nel tempo. C’è stato un tempo, non lontano, in cui sembrava che per la filosofia occuparsi degli oggetti di uso quotidiano sembrasse o una provocazione o un tentativo di fare divulgazione e rendersi più appealing ad un pubblico “pop”, composto da non specialisti. Emblematica di ciò è la dicotomia tra “cosa” e “oggetto” (ben chiara in tedesco, dove la prima è Sache e la seconda Ding). La cosa nel senso espresso da Sache è già orientata al pensiero concettuale, è un insieme di attributi e qualità, che la definiscono come quella cosa lì e non un’altra. Mentre infatti gli oggetti, come ricorda anche Remo Bodei, sono quelli “gettati” davanti a noi nel mondo (obiectum deriva dal verbo obiciere, gettare davanti), e quindi sono considerati bruta materialità resistente e sfruttabile, la cosa è ciò che guida il pensiero secondo criteri suoi propri. Quando la “cosa stessa” parla, allora si ha il valore dell’evidenza, un ragionamento dettato dalla struttura stessa del mondo. «Un’immagine è più di un’immagine e a volte più della cosa stessa di cui è l’immagine», così sosteneva Paul VALÈRY. Ciò che posso chiamare presente. 

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