Teatro politico, ovvero “Quid est? Quid fuit? Quid erit?”

Quid est?

Sono convinto che tutto ciò che si presenta in uno spazio pubblico, come appunto il teatro, è per sua stessa natura politico

Se uno allestisce, ad esempio, un’opera di Rossini è perché fa una scelta, perché decide di presentare questo alla società. Chi esegue quel certo brano di Rossini stabilisce anche di proporlo come risposta alla situazione in cui vive. Quali siano le scelte, non si può evitare di essere politici, si fa una affermazione politica per il semplice fatto di avere scelto. Scegliere ci aiuta a riflettere e interrogarci, e una domanda centrale da porre oggi è se e come sia possibile dilatare e, allo stesso tempo, chiarire il concetto di teatro politico.

È sufficiente rivendicare con smisurata e appassionata insolenza un antichissimo concetto di avanguardia artistica, legato a fenomeni di rivolta sociale e popolare (Agit-Prop = agitazione e propaganda assieme), come fulcro motivazionale attorno al quale provare a fare la differenza e abbattere la cosiddetta quarta parete (quel muro immaginario posto tra palco e platea di un teatro) attraverso la quale il pubblico osserva l’azione che si svolge nel mondo dell’opera rappresentata? Penso di sì. Penso ai maestri del Teatro (Majakovskij, Piscator, Brecht, Artaud) insieme ai più moderni Boal, Weiss, Living Theatre, Dario Fo, che hanno cercato disperatamente, nel nome di Majakovskij o Piscator, Brecht o Artaud, di tenere viva un’efficacia che il teatro (e la politica) sembra aver perduto. 

Originalità e tradizione

Si tratta di un’esigenza profonda del teatro, quella di misurarsi con la propria storia e ritrovare le proprie origini andando alla ricerca di un impegno politico e civile che rifiuta l’ideologia, per muoversi in una zona che è insieme prima e oltre la politica. Viviamo nell’epoca dell’originalità a sfavore della tradizione, ma le pulsioni profonde per il concepimento e la realizzazione di drammaturgie d’impegno politico, civile e poetico assieme, non scompariranno dall’animo degli artisti. Del resto, la storia dell’arte non è stata, non è e non sarà mai determinata dalle sole idee, ma soprattutto dalla loro realizzazione formale:

«[…] Tutto ciò che è formale, contrariamente a ciò che è tematico, ha in sé come possibilità la propria tradizione futura […]» (P. Szondi, in Teoria del dramma moderno)

A proposito di nostalgia

Su quella che dovrebbe essere la tomba della divinità Iside, vicino a Menfi, era stata eretta una statua ricoperta di un velo nero, sulla cui base era stata incisa, in latino, questa iscrizione:

“Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo”.

Sotto questo velo si nascondono i misteri e il sapere del passato.

Tra i poeti della Beat Generation (a cui ho dedicato un volume di drammaturgie) c’era un certo Gregory Corso, artista senza regole, a cui ho dedicato un paragrafo della prefazione di un mio ultimo lavoro, come omaggio alla terra che da tempo mi ospita:

«[…] Io sono di una razza ricca del tempo della terra /

Mia nonna era una donna delle caverne / nei monti di Calabria 

e sorvegliava le capre, le pecore, e gli alberi di limone /

dove Pitagora faceva lezione […]».

Corso riteneva che il poeta é tale perché riluttante e nemico dei compromessi. Nella sua sensibilità, il tema del dolore, come sofferenza personale e altrui, porta a quell’estraniamento, dettato dal suo j’accuse nei confronti delle convenzioni sociali e dell’ipocrisia. Una sorta di riscatto conquistato attraverso uno scatto d’orgoglio, dettato da quella voglia incoercibile di libertà e creatività artistica personale. 

Per quanto mi sia cimentato per anni con personaggi storici dal doppio profilo, politico e poetico (Gramsci, Pasolini e i poeti della Beat Generation), pur non disprezzando classici antichi come Sofocle, Euripide o Plauto – non mi sono mai chiesto se il mio fosse un teatro eminentemente politico se raccontavo di Gramsci o eminentemente poetico se il protagonista era, invece, Corso o i suoi amici beat. Figurarsi nel caso di Pasolini, dove i due piani molto spesso coincidono!

Il teatro politico rifugge dall’ecumenismo tonificante

Tra i tanti autori teatrali e non dei quali mi sono nutrito le sollecitazioni ricavate da Gennaro Vitiello, il più brechtiano dei miei Maestri a leggere (e ri-leggere) il grande Bertolt, hanno cementato in me un’idea molto salda del concetto di teatro politico che rifugge dall’ecumenismo tonificante e da ogni tipo di empatia tra scena e platea, spettacolo e spettatore, seppure sulla base di contenuti politici. Allo stesso modo diffido dell’entusiasmo politico ché non modifica realmente l’individuo, che lo intacca solo superficialmente ma non lo trasforma nel tempo in un cittadino desideroso di cambiamento: l’entusiasmo si nutre e si sazia da sé, poi si avvita su sé stesso e svanisce come la fiamma d’un cerino. 

È dalla trasformazione che nasce il dubbio intellettuale che può radicarsi e ramificarsi nel tempo. Ciò non toglie che qualora le necessità di una testimonianza politica attiva si facesse urgente e richiedesse un intervento immediato, potrei ricorrere empiricamente a strumenti e modi teatrali empatetici. Ma sarebbe, appunto, un ricorso provvisorio e strumentale a modi di far teatro politico, per così dire, aristotelici. Ho introiettato, mutuandola forse dall’antica pratica sportiva agonistica, più che da quella di ex-giovane militante politico, la necessaria duttilità tattica anche nel fare il mio teatro politico, nei confronti di situazioni particolari dell’esistenza, di fronte alle quali è più saggio rinunciare momentaneamente e coscientemente alla dialettica per scegliere più umilmente una posizione agit-prop… Il teatro politico ufficiale (quello basato sulla normalità di linguaggio, spacciata per popolarità) ha sempre rifiutato il teatro emozionale (relegandolo nel ghetto degli esperimenti piccolo-borghesi), rifiutando perciò anche tutta una serie di importanti strumenti linguistici, di modi di comunicazione teatrale (come il teatro gestuale) elaborati dal teatro irrazionalistico, in nome di una comunicazione realistica e razionale, buona parte della quale è stata rappresentata, negli anni passati, nei luoghi canonici della sinistra, come i Festival dell’Unità, le Case del Popolo o le Camere del Lavoro, nelle quali la teatralità ha fatto leva sui modi più triviali dell’emozionalità e sullo sfruttamento più totale dell’empatia tra palcoscenico e platea. Abbiamo dimenticato cos’abbiano rappresentato in tal senso i filoni della canzone di protesta o del cabaret politico, nello svolgimento di compiti di delega rievocativa da parte dei soli attori-cantanti, da un lato e di alleggerimento dei grossi problemi politico-sociali, dall’altro, ridotti al livello del battutismo comico? 

Teatro politico e teatro d’avanguardia

Un teatro che voglia essere politico dovrebbe essere, piuttosto e necessariamente, un teatro di avanguardia, laddove questo termine ritorni ad assumere (alla faccia della sua corrosività ed equivocità) il suo vero significato di vertice dialettico in cui si saldano le spinte soggettive e spontanee di sperimentazione e le necessità oggettive di situazioni politico-culturali concrete (collocazione del lavoro teatrale, rapporto organico con l’interlocutore individuato in un pubblico omogeneo, livello generale dello scontro politico-culturale, ecc.). Intanto il teatro, così com’è congegnato, lo possono fare solo i ricchi. Ma si dice che alla lunga la pietra ricadrà sui piedi di chi l’impugna… (continua)

Zucaro P. (2020), The Beat Generation in playin’. Trilogia drammaturgico-musicale sulla poetica della generazione Beat, Ottavomiglio Lab. Ed., CS (Con CD-ROM)