Che tout se tient, oltre il perimetro del già definito!

Persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati.
Carlo Michelstaedter

Strappo. Collage di carte. MInisci 2023

Che tout se tient è una banalità per capire l’interconnessione del tutto, che gli umani spesso vogliono ignorare, facendo le loro guerre, scoperte, teorizzazioni e costruzioni con l’illusione di una originalità che ripiomba poi nella logica complessiva. L’essere umano persona è un connettore. Connettori sono coloro che frequentano mondi geografici, fisici e culturali differenti; possiedono, grazie alla propria facilità di relazione, un numero esteso di conoscenze e contatti con persone fra loro assai diverse; praticano professioni creative-relazionali, nel mondo dei mediaold and new, nell’area del progetto o similari. Per questo hanno le potenzialità e la possibilità di mettere in collegamento situazioni e persone lontane, e di contribuire a far scattare la scintilla dell’innovazione, determinata di frequente da associazioni inedite che aprono al ‘pensiero laterale’ oppure a transfer tecnologici, espressivi, scientifici e culturali. È assodato che viviamo in una società che ci fa attraversare velocemente ambiti culturali differenti, che rielabora e diffonde semplificazioni di conoscenze, scoperte, invenzioni che appartengono a un sapere scientifico con elevata specializzazione; una società dell’informazione connessa alla produzione e al consumo incessante di prodotti materiali e immateriali, orientata su un marketing complesso che accerchia l’individuo in tutta la sua sfera emotiva e cognitiva, e lo ingloba in mondi artificiali e seduttivi. Viviamo di corsa in mezzo a individui frettolosi. Questo ragionamento comporta il pregiudizio che l’essere umano più innovativo e contemporaneo sia colui che conosce, usa, interpreta per fini artistici e non solo i nuovi saperi, le nuove tecnologie o le nuove tendenze sociologiche generate da tali saperi e tecnologie. In realtà il rapporto tra il fare artistico e il sapere contemporaneo è più complesso; quindi, l’essere contemporanei non significa necessariamente essere illuminati dal sapere che in quel tempo si è affermato. Dice Giorgio Agamben che il contemporaneo vede l’ombra della luce del proprio tempo. L’artista, quindi, si interroga, anzi, potremmo dire che questa è la sua tensione verso il sapere scientifico e, in generale, verso ogni sapere specialistico. Interrogarsi significa porre nuove questioni all’interno del sapere e del modo in cui il sapere agisce sulla nostra società; vedere l’ombra della luce. La difficoltà, però, sta nella definizione di sapere contemporaneo e nelle modalità con cui si può decodificare questo sapere. Non esiste una risposta semplice: oggi più che mai in un momento di “vuoto pensiero”. A mancare è prima di tutto il tempo delle relazioni con gli altri, sacrificate sull’altare del benessere materiale, che conosce due soli imperativi: lavoro e consumo.

Per Grazia Ricevuta_Minisci 2023

Siamo più ricchi di beni e sempre più poveri di relazioni. Ecco perché siamo sempre più infelici. È questo il quadro desolante confermato dagli studi di varie scienze sociali sulla «felicità» nei paesi a più alto grado di sviluppo. Ma davvero per divenire più ricchi economicamente dobbiamo per forza essere poveri di relazioni interpersonali, di benessere, di tempo, di ambiente naturale? L’importante è che nuovi fenomeni sembrino generarsi e che nuove tendenze sembrino sul punto di emergere. Da una parte queste pratiche generano a loro volta tendenze, novità, prodotti; dall’altra, in modo forse meno superficiale, sono il miglior sostegno alla società del capitalismo immateriale e dell’informazione culturale, che propone nuovi contenuti per libri, riviste, discussioni. Il rischio è la semplificazione eccessiva; il vantaggio, invece, una divulgazione in grado di ampliare la diffusione del sapere. Apprendere ad apprendere. Come a dire che nella cosiddetta società della conoscenza non basta più semplicemente imparare. Perché qualunque cosa si impari o si acquisisca (conoscenze, competenze, atteggiamenti…), sembra diventare da un momento all’altro obsoleta, inadeguata, inutile a essere ‘spesa’ su un ‘mercato’ (di conoscenze, di competenze, di atteggiamenti…) che cambia continuamente e imprevedibilmente. Per questa ragione dovremmo invece apprendere ad apprendere: cioè, diventare capaci di imparare e acquisire altrettanto continuamente e altrettanto imprevedibilmente quei saperi, quelle competenze, quegli atteggiamenti che quel ‘mercato’ ci chiede.  Apprendere a disapprendere. È il modo in cui Zygmunt Bauman ci ha invitato a rileggere, oggi, le retoriche della flessibilità. Come a dire che apprendere ad apprendere serve solo se possiamo aspettarci delle regolarità o delle regole. Ma se, come accade oggi, le regolarità e le regole non esistono (o sembra che non esistano) anche i modi in cui abbiamo appreso (secondo alcune regole) ad apprendere risultano altrettanto obsoleti delle conoscenze, delle competenze e degli atteggiamenti che volevano superare. Così, senza nulla che garantisca la tenuta nel tempo dei nostri modi di apprendere ad apprendere, l’unica cosa che ci resta da fare è disimparare ognuno di quei modi di apprendere prima che essi diventino “peso”. Che cosa significhino oggi, in teoria e in pratica, queste parole è ancora tutto da giocare.

Strappo. Collage di carte. MInisci 2023

Sebbene la società appaia fondata sullo stabilirsi di links e su tutto ciò che ne consegue, non tutti i legami sembrano possibili. Un esempio ci è fornito da Claude Lévi Strauss, nella sua opera Le strutture elementari della parentela. Egli sostiene che la cultura umana è nata con le prime regole di convivenza, dettate proprio dallo stabilirsi di relazioni tra i membri di un gruppo. La posta è decisiva: disimparare e cambiare. A mio avviso questo contesto sollecita una cultura del progetto inedita: molto più interdisciplinare, sinergica con tutti i settori del mondo della ricerca, e della società, in cui cultura e prassi siano fondate non solamente sulle buone pratiche, ma diventino ispiratrici di “una nuova modernità”. In un’ottica di valorizzazione della prossimità, condividendo quel senso di destino comune, di cui parla Edgard Morin (1994). Una cultura del progetto dove le visioni di progresso e di futuro siano alimentate da valori di inclusività e proattività, contribuendo a rendere più sostenibile, equa, intelligente e competitiva la nostra società, più tutelato e confortevole il pianeta. Coraggio tout se tient.

Angelo Minisci

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