ALTRI LUOGHI. Paesaggi di fondo, ovvero la comprensione dell’attesa.

Il mio lavoro artistico ha per sua natura una ricerca biografica del vedere l’anima del mondo o semplicemente di definirne le sfumature. Un lavoro attento, meticoloso, quasi maniacale, metrica di precisione e allo stesso tempo di leggerezza del vivere. Ogni opera è connessa alle altre, quasi come una loro introduzione, ma contemporaneamente rimanda a visioni alternative, puramente mentali. “Ogni immagine è, evoca o coincide allo stesso tempo con la parola che la presenta, la commenta, la illustra”. La spontaneità delle sensazioni come sorgente, il disegno come struttura reticolare per catturarle. Ed è proprio il pensiero, il concetto, che diviene centrale per la mia poetica, a discapito del prodotto che è strumento. Ciò che posso chiamare presente. Il linguaggio figurato è per me il mediatore tra l’uomo e il suo mondo, tra la natura e la cultura. 

Fare il fondo

Osservare dove la linea d’orizzonte si lascia vedere tra i riflessi della luce, fa di un lavoro artistico quel senso d’attesa. Il “paesaggio” è di fondo, sta lì come se si comprimesse tra il desiderio e il favore. È un gesto, un segno lasciato evanescente nel tentativo di raccogliere un punto di vista. Quest’attesa definisce un luogo, un posto dove fermare lo sguardo e tracciare quel ponte che fa avvicinare le due possibilità, Paesaggi di fondo, ovvero la comprensione dell’attesa.

Essere presenti contemporanei, significa essere in grado di percepire il buio del presente. Ciò vuol dire che riuscire a vedere il proprio tempo non è qualcosa di scontato, ma è il frutto di un’operazione di pensiero. Catturare sensazioni è un’attività particolare, che richiede uno strumento arcaico, la ‘pittura di una volta’, lavorare partendo da lontano, quindi, forse dal profondo del tempo.

“Il senso dei luoghi”

Come propone Vito Teti in uno suo scritto per Donzelli. Tornare per celebrare un rito riappropriarsi del luogo, rifondarlo. E almeno per un attimo e nella fugacità di un tempo breve, quel luogo rinasce negli occhi di chi era andato via o di chi è alla ricerca di un senso, di un altrove che si era forse lasciato alle spalle. I luoghi sono una sedimentazione di storie, memorie, vissuti che ci fanno pensare e ripensare alla vita. Questa dimensione dell’esistenza mi pare si stia perdendo. Certamente la memoria o il ricordare troppo non devono cadere nei facili sentimentalismi, cercando di trasformarlo nel presente per ritrovare la strada, questo sì che può diventare fonte di energia.

Forse è anche giunto il momento di interrogarsi sul perché abbiamo superato il limite e se non sia il caso di fermarsi un po’ per guardarsi indietro e recuperare un passato dalle potenzialità ancora non espresse. Non penso che si possano avere molteplici identità o posti di riferimento. Penso che il luogo di appartenenza sia assolutamente quello in cui sei nato e cresciuto, quello in cui hai mangiato per la prima volta o ti sei innamorato per la prima volta. Si può fuggire dal luogo d’origine, ma alla fine del percorso comprendi quanto la strada compiuta ti abbia riportato al punto di partenza.

Questo conferma l’idea che avere delle radici, custodirle nella memoria o anche solo sapere di avere la possibilità di ritrovarle fa parte del naturale viaggio umano…compreso una certa melanconia. Quella melanconia che si accompagna alla nostalgia

Per dirla con Pasolini: una nostalgia sovversiva. 

“I luoghi non muoiono. Nemmeno quando le persone se ne sono andate. I luoghi continuano a vivere fino a quando ci sono persone ad essi legate, da essi provenienti, fino a quando qualcuno, magari discendente dalle persone nate nei luoghi, ne avrà ricordo “. Restare, allora, non è uno slogan nè un proclama. Si può affermare un’utopia delle piccole cose che richiede pazienza e cura, circospezione e tenacia, attenzione e apertura, senso di responsabilità e discorsi di verità che non ammettono illusioni”. La restanza non deve sottendere una restaurazione di mondi perduti, dunque, ma affermare il diritto alla memoria e all’elaborazione di nuovi modelli di sviluppo. Che ridisegnino i modi di organizzare spazi, economie, relazioni, abitare. Il vuoto creatosi è opportunità di elaborare il nuovo. Restanza può essere consapevole opposizione al vuoto, ripartenza dal margine. Ma necessita di sguardi altri, “perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine”, scrive Vito Teti in apertura del suo ultimo libro. Il dibattito riparte da queste assenze perché non vi può essere futuro senza la certezza, memori di quello che si è stati, di quello che si è. Ora ed in questo luogo, buon Viaggio.

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