Camminare tra le rovine

echi di Magna Grecia a Roghudi e dintorni

Come in molti altri luoghi, anche in Calabria risuonano gli echi di un passato (non ancora del tutto sepolto) in cui la vita della regione era pervasa da fenomeni magici e creature mitologiche. In particolare, c’è un’area in cui racconti millenari si sono conservati fino ad oggi, l’area della Calabria Greca, detta anche Bovesia, che trova il suo fulcro a Chora tu Vua, la Città di Bova. Questa è un’area particolare ed estremamente interessante, poiché a causa del suo forte isolamento è riuscita a conservare al proprio interno tracce di Magna Grecia. La cultura ellenistica si è tramandata per millenni, tramite la lingua, la musica, le tradizioni, i racconti.  La Calabria meridionale, dall’istmo di Catanzaro in giù, risultava prevalentemente ellenofona fino al XV secolo. Ora la lingua è dichiarata a rischio estinzione (anche se qualcuno dichiara che sia già morta), e anche altre manifestazioni di tale cultura si stanno perdendo, similmente a quanto accade a molti altri contesti locali che sono rimasti poco contaminati per secoli e che ora si ritrovano improvvisamente sottoposti alla pressione delle dinamiche globali. Lo sviluppo di infrastrutture, sia materiali che informative, favorisce la circolazione di idee, cose e persone, ma anche processi di standardizzazione da parte delle aree centrali che cercano di omologare le realtà più periferiche, marginali, diverse dal proprio standard di normalità (e di civiltà). Storicamente alcuni esempi sono stati l’imposizione del rito latino in sostituzione del rito greco che nel ‘500  fa scomparire il

greco dalla liturgia e lo relega a lingua tramandata solo oralmente (in realtà un processo di latinizzazione del clero greco era in atto già dal periodo Normanno, nonostante forti resistenze), ed essendo questa parlata principalmente da pastori, ne consegue la scomparsa delle espressioni più astratte; l’imposizione dell’italiano a partire dall’unità d’Italia  (continuata con più vigore dal fascismo il quale doveva tra l’altro sostenere la narrazione di Roma come unificatrice dell’Italia a partire dalla lingua latina) accelerò il processo di scomparsa del greco come lingua quotidiana, relegandolo a lingua di quelli che la nascente borghesia locale, desiderosa di distinguersi, definiva paddechi, zangrei, gente rozza e incivile (è ancora in uso l’espressione dispregiativa “mi pari nu grecu”). Nel secondo dopoguerra una serie di alluvioni e l’intensificarsi del fenomeno dell’emigrazione hanno fatto il resto e decisivi furono i processi di trasferimento (a volte deportazione) di interi paesi, come Africo o Roghudi, verso la marina, verso la “civiltà”.
Ma la progressiva scomparsa del greco come lingua quotidiana è stata accompagnata negli ultimi decenni da un forte interessamento da parte di numerosi soggetti che si sono costituiti in varie associazioni che tentano un recupero di ciò che sembra stia andando irrimediabilmente perduto. Tuttavia molto polemicamente Paolo Martino[2] accusa una parte di queste associazioni di essere anacronistici ed essere spinti da un interessamento “borghese”, poiché propongono soluzioni (come l’uso dell’alfabeto greco) che nulla hanno a che vedere con la realtà popolare degli ultimi parlanti di grecanico: la stessa borghesia che in precedenza ha fortemente contribuito alla scomparsa del greco poiché considerata lingua dei rozzi, adesso invece la vuole recuperare per ostentare un’appartenenza culturale alla Magna Grecia. Personalmente ritengo che seppure sia necessario evitare i pastiche postmoderni è comunque fondamentale continuare un’opera di studio, conservazione e tramandamento di una cultura ed una storia così importante per la Calabria e per il Mediterraneo.

Nel cuore della Bovesia, in una delle zone più interne ed inaccessibili dell’Aspromonte, sorge Roghudi, un suggestivo borgo abbandonato posto su uno sperone di roccia immediatamente sopra la confluenza tra la fiumara Amendola ed il torrente Furria: pare che un tempo le donne legassero i propri figli con delle catene per evitare che questi cadessero nei burroni che circondano il paese.  Si racconta che nelle acque della fiumara vivessero le Anaradi (o naràde o nadàre), delle donne brutte e cattive con zampe da mulo al posto dei piedi e che provavano ad uccidere le donne che giravano da sole forse per rubargli i mariti. Le anàradi sono la versione Aspromontana delle nereidi, le ninfe acquatiche della mitologia greca.  Come si può notare dai romanzi di Ettore Castagna[3] o dai resoconti etnografici di Vito Teti l’intera area grecanica era un tempo abitata da numerose creature “Draghi, naràde,  sirene, fate,  folletti, gnomi, magare  e maghi  popolano le favole e le leggende delle località ellenofone, come la tradizione  orale greca.”[4]  Roghudi, come

tutta la Bovesia, era estremamente isolato, collegato solo da mulattiere percorse a piedi o con l’asino. La prima strada carrabile fu portata negli anni ’60.

A pochi chilometri da Roghudi vi è la rocca do Draku, una roccia la cui origine è incerta. Anche questo posto è avvolto dalla leggenda: si racconta che sotto questa rocca u Draku, un essere mitologico, custodisse un tesoro e l’unico modo per ottenerlo sarebbe recarvisi e sacrificare un agnello, un gatto nero e un bambino appena nato. Ma sempre secondo la leggenda gli ultimi che hanno provato ed eseguire tale sacrificio per ottenere il tesoro del Draku, sono stati spazzati via e uccisi da un’improvvisa tempesta.

Le tempeste improvvise sono frequenti in Aspromonte e numerosi paesi sono stati evacuati per tale motivo. Il più famoso è Africo, ma la stessa sorte è toccata anche a Pentedattilo, Ferruzzano, Roghudi e tanti altri. Roghudi si spopola nei primi anni ’70  proprio a seguito di alcune alluvioni. Delle guide ci hanno raccontato che quella di Roghudi fu in parte una storia di deportazione, poiché se è vero che il paese, segnato dalla miseria più nera (si contendeva con Africo il triste primato di paese più infelice del mondo) si stava già autonomamente in parte spopolando, è anche vero che molte persone furono spinte ad allontanarsi anche per favorire processi di urbanizzazione e speculazione edilizia che si stavano verificando sulla Marina.  Ovviamente ciò ha determinato uno sradicamento degli ex abitanti di Roghudi ed è stato accentuato il processo di rimozione di ciò che rimane della cultura grecanica calabrese. Roghudi nuovo sorge vicino la costa a pochi chilometri da Melito di Porto Salvo: non l’ho visitato, ma me ne hanno parlato come un paese anonimo ed in cui sono evidenti le radici spezzate. Agostino Siviglia, l’autore della poesia che ha aperto questo scritto, era un abitante di Ghorìo di Roghudi (una frazione poco distante da Roghudi, anch’esso abbandonato dopo le alluvioni degli anni ’70), ed esprime la propria disperazione per l’abbandono, in parte forzato, del suo paese. 

Ma che fine hanno fatto le naràde, le magare, u draku, gli spiriti? Se lo chiede Vito Teti e scrive che “Gli anziani  roghudesi all’inizio degli anni  ottanta ricordavano che si erano dirupate tutte  quante  dagli  sprofondi  di  Sporicema  (toponimo  di Roghudi) dove si erano nascoste dopo  la scomunica del papa. E forse dalla voce di Annunziata          Romeo di anni  94 all’epoca del dialogo che con lei venne registrato  (Minuto, Nucera, Zavattieri 1988) giungono gli  ultimi  echi delle  antiche battaglie ingaggiate  dalla  Chiesa, quasi ovunque, contro le leggende e le superstizioni  popolari, contro  le credenze magiche  e certe pratiche funebri. Ho sentito parlare di nadàre anche nell’antica Samo, a Precacore, lungo la bellissima gola che accoglie la  fiumara La Verde. Era questo un luogo privilegiato per  la loro  apparizione,  prima  che  anche Precacore, distrutto dal terremoto del 1908, venisse abbandonato. Delle naràde giungono pallide voci dal passato. Forse, così malvagie e potenti, hanno fatto in tempo, prima di diruparsi e di morire, a provocare la morte degli abitanti e dei  paesi, sono riuscite a dissanguare lentamente l’abitato. Forse, più verosimilmente, figure innocue e a loro modo custodi della vita del paese, hanno scelto di scomparire quando le persone se ne sono andate, quando i paesi hanno chiuso. Non perché non avessero più bambini da spaventare, penso, ma perché non hanno sopportato la solitudine. Le divinità, benevole e malvagie, non vivono da sole.”[5]

Le divinità non vivono da sole. Potranno mai rivivere le mitologiche creature che popolavano la Calabria ellenofona? Secondo Ettore Castagna per far si che la gente possa tornare a vivere dignitosamente in questi luoghi non si può fare a meno di un serio investimento in istruzione e sviluppo locale: “Si riuscirà ad insegnare il greco di Calabria nelle scuole? Ed accanto ad esso bisognerà insegnare anche il neogreco per dare una prospettiva più ampia alle antiche radici? Sono due domande fondamentali e di difficile risposta ma che contengono alcune delle prospettive di salvezza per la lingua. Tutte le altre riguardano il mondo economico. Senza alcun progetto di sviluppo sostenibile per le aree interne esse saranno oggetto di definitivo svuotamento: tipote ànthropo, tipote lòghia (nessun uomo, nessuna parola)”[6]


[1] Non conosco il nome della poesia, l’ho trovata riportata da Ettore Castagna (2014) Lingua e poesia di un’antica cultura da salvare,  pagina 31 . In AAVV (2014), Pucambù. Guida al turismo sostenibile nella Calabria Greca. Disponibile su http://www.caireggio.it/v2/wp-content/uploads/old_files/files_pdf/pucambu2014.pdf

[2] Martino Paolo, L’affaire Bovesìa: un singolare irredentismo, in Consani C., Desideri P., Guazzelli F. & C. Perta (acd), Alloglossie e comunità alloglotte nell’Italia contemporanea, Atti del XLI Congresso Internazionale di Studi della Società di Linguistica Italiana (SLI), Pescara, 27-29 settembre 2007, Roma 2009, Bulzoni, pp. 251-273.

[3] Mi riferisco in particolare ai romanzi “Del Sangue e Del Vino” (2017) e “Della Grecìa Perduta” (2020) in cui Ettore Castagna, grazie alla sua formazione antropologica ed ai suoi numerosi studi ed attività di animazione svolti in  questi luoghi, fa rivivere al lettore l’atmosfera che si respirava in quelle zone della Kalavrìa tra il XVIII e il XIX secolo.

[4] Vito Teti (2004), Il senso dei Luoghi, p. 91

[5] Vito Teti (2004), Il senso dei Luoghi, P. 91-92

[6] Ettore Castagna (2014) Lingua e poesia di un’antica cultura da salvare,  pag 25 . In AAVV (2014), Pucambù. Guida al turismo sostenibile nella Calabria Greca. Disponibile su http://www.caireggio.it/v2/wp-content/uploads/old_files/files_pdf/pucambu2014.pdf